A cura di Claudio Guffanti, Fondatore di Unlimited Views
Anni fa, quando ho iniziato a studiare i temi di Diversità e Inclusione, la mia percezione era che in Italia fosse poco chiaro alle aziende quale grande opportunità di business si celasse dietro questo tema. Allo stesso modo, dopo aver cercato invano dei percorsi di formazione in Italia che ritenessi all’altezza, mi sono concentrato sullo studio da autodidatta del mercato americano e del mercato UK, faro e apripista europeo di ciò che veniva studiato e sperimentato oltre oceano.
E’ in questo contesto di scarsa consapevolezza che ho creato il brand Unlimited Views, con cui aiuto le aziende a considerare una pluralità di punti di vista alternativi per sviluppare un processo decisionale più corretto e vincente. Supporto le aziende in D&I come formatore, come consulente e come coach.
Negli ultimi anni la situazione è parzialmente cambiata: sebbene il Sud Europa resti su alcuni fronti il fanalino di coda del mondo occidentale, a partire dal 2018 ho visto un impegno crescente da parte di alcune aziende. Spesso si tratta di chapter locali di organizzazioni anglo-americane, più raramente si tratta di aziende italiane. Il primo passo di solito consiste nell’avviare piccoli progetti D&I affidandoli a membri del team HR, qualunque sia il loro ruolo (formazione e sviluppo, employer branding, selezione…). Dopodichè, se l’azienda crede nei reali vantaggi di questi progetti, si istituisce una figura di Diversity Manager e successivamente un team più consistente di D&I che tuttavia resta confinato all’interno della funzione HR. Diverse aziende italiane oggi vedono uno scenario di questo tipo.
Dal mio punto di vista lasciare il team D&I all’interno della funzione HR ha due svantaggi: da un lato si rischia un focus minore, non costituendo una funzione D&I con diretto riporto al CEO; dall’altro la funzione HR stessa non appare – nei confronti del team D&I – come un cliente paritetico a tutte le altre funzioni aziendali. E’ certamente vero che la necessità di attrarre talenti diversi e di costruire processi di selezione privi di pregiudizi rende le Risorse Umane una funzione significativamente coinvolta nei progetti D&I. Ma allo stesso tempo altre funzioni sono altrettanto intensamente coinvolte: il Marketing ha la responsabilità di sviluppare prodotti e servizi inclusivi per allargare la consumer base; Procurement e Supply Chain devono dotarsi di una pluralità di fornitori diversi, dalla società corporate al singolo freelance… Non solo: tutta l’organizzazione deve essere coinvolta sia nel processo di lotta agli stereotipi sia nel coltivare uno stile di leadership il più possibile inclusivo. Per questo credo sia vincente creare una funzione D&I a se stante, con risorse e investimenti esattamente come per le funzioni Marketing, Sales o HR, che abbia come clienti interni in modo paritetico tutte le altre funzioni aziendali ad ogni livello. Ad oggi, per quanto mi risulta, solo due aziende italiane hanno un Chief Diversity Officer a riporto diretto del CEO: Barilla (settore FMCG) e Gucci (settore moda).
Se da un lato assisto a progressi importanti da parte di alcune aziende, dall’altro invece molte organizzazioni in Italia sono ancora ferme a piccoli progetti on-off. Nel mercato US nessuno si chiede più se la Diversity sia una reale leva di business nel medio termine: le numerose ricerche da parte di realtà globali della consulenza (Mc Kinsey, Deloitte, Boston Consulting Group… solo per citarne alcune) hanno messo tutti a tacere e l’economia americana lavora in modo strategico e continuativo su questi temi in funzione del reale vantaggio finanziario che ne consegue (frutto di maggiore creatività e innovazione ma anche di una maggiore capacità nell’attrarre talenti). Allo stesso modo in US è noto a tutti che D&I hanno un ruolo eticosociale solo come side effect: le aziende devono per prima cosa fare business. Al contrario in Italia ho spesso la sensazione che poche aziende abbiano compreso il reale valore in termini di business che un investimento in D&I porta con sè. Molte organizzazioni ne vedono ancora solo l’aspetto sociale ma non i vantaggi di business; per questo faticano a distinguere la Corporate Social Responsibility dalla D&I e gli investimenti per l’inclusione sono spot e orientati a piccoli progetti piuttosto che ad una strategia a lungo termine. Esiste poi un altro nemico: l’autoreferenzialità. Alcune aziende vivono con la fierezza di credersi estremamente inclusive, ma basta davvero poco per accorgersi che in molti casi chiamano “inclusione” ciò che in realtà è “non discriminazione”, senza neppure conoscerne la differenza di significato.
L’emergenza Covid-19 – infine – ha reso evidente come alcuni progressi degli ultimi decenni, ritenuti significativi, siano stati in realtà dei passi avanti piuttosto sterili. E’ evidente come, ad esempio nella parità di genere, un periodo di incertezza e di prospettive non chiare abbia sfavorito il genere femminile relegandolo ad occuparsi ancora di più di casa e famiglia a discapito di qualsiasi ambizione lavorativa, facendoci assistere a qualla che definirei una regressione rispetto a quanto raggiunto in precedenza.
In conclusione, dove è arrivata l’Italia oggi nel suo D&I journey? Personalmente credo che ci sia ancora parecchia strada da fare. Rispetto agli Stati Uniti, l’Italia ha vissuto più recentemente la diversità etnica, ma molto presto le seconde generazioni di extracomunitari avranno un livello di scolarizzazione tale da trovarsi a lottare per posizioni di management contro uomini bianchi e i loro privilegi all’anagrafe. Inoltre, la società stessa sta crescendo in termini di inclusività verso alcune macro-diversità (come il mondo LGBT+ o le persone con disabilità), esercitando pressione anche sulle organizzazioni aziendali affinchè si muovano di pari passo. Infine, con il prolungamento dell’aspettativa di vita e dell’età pensionabile, già oggi condividono lo stesso ambiente lavorativo persone che hanno fino a quaranta anni di differenza.
Diventa quindi estremamente necessario velocizzare questo percorso, per non farsi trovare impreparati ad un mondo del lavoro che ci metterà – quanto prima e ancora più diversi – a lavorare insieme.
Claudio Guffanti
Claudio Guffanti, nasco ingegnere gestionale al Politecnico, con la fortuna non banale di maturare con chiarezza – già durante gli studi – che cosa avrei voluto fare da grande: marketing per un brand di una multinazionale del largo consumo.